Le nuove vie d’arrampicata sulla parete Berrier a Crête Sèche nel comune di Bionaz, Valpelline, Valle d’Aosta
Gaston Rebuffat scriveva: “L’alpinista è un uomo che conduce il proprio corpo là dove un giorno i suoi occhi hanno posato lo sguardo. E che ritorna.”
Nei miei occhi vi erano depositate immagini di questi luoghi da lungo
tempo, da quando nel lontano 1980 salii per la prima volta al rifugio
di Crête Sèche per salire lo spigolo Bozzetti e il giorno successivo il
Mont Gelé. Fu la lettura, casuale (?) del testo di Michel Vaucher “Le
Alpi Pennine. Le cento più belle scalate” (ed. Zanichelli) che insieme a
quello del Buscaini (1971) “Guida dei Monti D’Italia” Alpi Pennine
(C.A.I e T.C.I.), che mi spinsero in questo luogo appartato e, direi,
dal sapore ottocentesco.
Da allora, nel mondo dell’editoria di montagna italiana, nulla fu più
proposto, fatta eccezione per un breve e succinto opuscolo dato alle
stampe che raccoglieva i nuovi itinerari aperti con l’utilizzo degli
spit, ma di uso quasi esclusivamente locale, da parte di Daniele
Pieiller gestore del rifugio fino al 2019. Stiamo parlando dell’anno
2000!
Allora (1980) il rifugio Crête Sèche era gestito da Ettore Bionaz,
guida alpina e membro del gruppo Guide Alpine della Valpelline, grande
conoscitore della valle e purtroppo deceduto nel 1985 sotto una scarica
di sassi durante la discesa dal Monte Cervo.
La frequentazione era alquanto scarsa e “regnava” la solitudine sia
in parete che lungo quei sentieri inizialmente sempre ripidi e che mano
mano che salivi di quota si addolcivano. Quel 15 agosto del 1980 in quel
rifugio sobrio eravamo in tre: io, il mio compagno di cordata ed Ettore
Bionaz. Nessun altro fece capolino in quel luogo in cui, spesso, il
vento diventa l’elemento dominante a farti compagnia.
Fui colpito dalla crudezza di quei luoghi, ma soprattutto dalla
solitudine che trasmettevano. E questo mi entrò nel profondo senza colpo
ferire. Già… la solitudine. Impiegai anni per capire che la solitudine
può essere vissuta come un “pieno” e non esclusivamente come un “vuoto”.
Solitudine che rimase come elemento distintivo di questa “pietra”
arida e poco accattivante. “Pietra” che richiedeva e richiede un
corteggiamento paziente per essere “letta”. Non vi sono linee di salita
nette e appariscenti come in altri luoghi più conosciuti. Non basta
guardare, bisogna che i propri occhi vedano.
La vita mi portò a
girare per tutto l’arco alpino, ma il profumo di quella pietra rimase
impresso nei miei abiti, e la stessa vita nel 2012 mi riportò in modo
più assiduo e definitivo ancora in Valpelline e in quel di Crête Sèche.
Vagai ancora per quei monti e i “miei occhi” scoprirono strutture che
probabilmente erano sotto gli occhi di tutti, ma passavano inosservate
forse perché da sempre lì, così che richiedevano occhi “stranieri” per
essere viste.
Iniziò una lenta e faticosa ricognizione. Lenta perché non era e non
fu facile trovare compagni di viaggio che avessero gli stessi occhi…
perché fu difficile sfatare un concetto radicato da tempo che la
“pietra” in Valpelline è pessima… perché è più semplice e facile
ripercorrere un itinerario già “confezionato”… perché fu difficile
convivere con lotte intestine tra “Guelfi e Ghibellini”, e poter
riaffermare un dato importante: le Montagne e le Pareti non hanno
proprietari.
In questo viaggio che richiedeva e richiede a volte lunghi
dislivelli, la discriminante nella ricerca non era né la quota della
cima né le difficoltà; era necessario rivivere quel senso di solitudine e
impregnare i propri abiti col profumo di quella pietra.
I progetti in cantiere sono ancora molti; oggi qui troverete la
parete del “Berrier”. Tale struttura rocciosa (Berrier) fa parte dei
contrafforti (Sud/Est) del Mont di Crête Sèche che sovrastano buona
parte del tratto terminale del sentiero che conduce al rifugio omonimo.
Questa struttura non era denominata dai locali, ho pensato di chiamarla
in questo modo semplicemente perché sovrasta l’alpeggio sottostante che
ha lo stesso nome.
Alla parete del Berrier, all’insaputa uno dell’altro, io ed Ezio
Marlier avevamo iniziato lo stesso percorso di chiodatura, ovviamente su
itinerari diversi. Ci parlammo, come si fa tra persone civili, e spesso
siamo riusciti ad unire le forze e gli intenti: guardavamo con gli
stessi occhi senza pregiudizi di sorta.
Spero che in queste brevi e succinte note troverete un “biglietto di
viaggio” per Crête Sèche. Certo molte cose sono cambiate dal 1980, ma la
“Pietra” è sempre quella.
ACCESSO
Dal rifugio prendere il sentiero alle spalle dello stesso che porta
nella Comba di Vertzan (tratti gialli e ometti). Inizialmente passa alla
base del Pilier Petey e successivamente porta alla vecchia palestra di
arrampicata. Il sentiero taglia orizzontalmente la base dei contrafforti
del Mont di Crête Sèche e superato il canale con i paravalanghe si
giunge alla “Falesia del Berrier” (30’ dal rifugio).
LEGENDA
La roccia su tutti gli itinerari è ottima. Essendo itinerari molto
recenti e che hanno pochissime ripetizioni per alcune vie e per altre
nessuna ripetizione le valutazioni delle difficoltà sono indicative, e
come sempre (almeno io credo) i numeri che indicano le difficoltà sono
semplicemente un codice di comunicazione tra arrampicatori.
LE VIE DI ARRAMPICATA
1_Via Mom Supestar (Ezio Marlier e Mattia Faggionato ) 6a+. 5L. Una 10 di rinvii. Corda da 60 m. Chiodatura più distanziata delle vie precedenti.
2_Via Baroni Volanti (Angelo Baroni e Ezio Marlier)
6b/+. 4L (si congiunge con la via Estelle.) 10 rinvii. Partenza
“laboriosa”; lo è stata per me. Nel secondo tiro, traverso (6a) delicato
per raggiungere la sequenza di placche. Poi più facile. Il quarto tiro
(6a+) su placca rossa verticale è splendido.
3_Via Estelle (Ezio Marlier e Luigi Santini) 6b. 4L . Sempre 10 rinvii. E corda da 60 m.
4_Psicoterapy (Ezio Marlier/Sergio Fiorenzano) 6b via sprotetta e pericolosa qualche spit lungo la via